Questione di mindset

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Mindset’, ‘cambiamento di mindset’, se ne fa un gran parlare in questo autunno 2020.

La traduzione di questo vocabolo inglese è ‘mentalità’, ‘modo di pensare’.
A un profondo cambiamento del nostro mindset come singoli e come collettività siamo chiamati, - perché è quello che sentiamo ci serve - per affrontare questi tempi incerti e, talvolta, percepiti come spaventosi.

Da gennaio 2020 alcune parole che abbiamo usato – e abusato - negli ultimi anni senza grande consapevolezza stanno prendendo reale concretezza. Parole come complessità, resilienza, unknown, ecosistema, digital transformation, disruption, VUCA, agile (letto all’italiana e all’inglese) e simili. Anche mindset è una di queste.

È vero, abbiamo assolutamente bisogno di un cambio di mentalità e abbiamo bisogno che queste parole diventino oggi esperienza vissuta, incarnata.

Per questo mi piace ragionarci un po’ su. Nella parola e, quindi nel concetto, ‘mind’ è, appunto, mente e, in effetti, è chiaro che per cambiare la nostra mentalità dobbiamo partire dalla sua comprensione. Ecco che ci rendiamo subito conto che ciò che pensiamo essere profondamente razionale, non lo è poi tanto e non lo è poi solo. La nostra mentalità, il nostro modo di pensare, si sono costruiti anche attraverso l’intuizione, le emozioni, le credenze, la visione del mondo che abbiamo composto nel tempo, più o meno consapevolmente, accumulandole.
Mindset, quindi, così come ‘pensare’, considerata la nostra natura sistemica, non sono riferiti alla sola sfera razionale, che anzi, come sappiamo è l’ultima che interviene ma, piuttosto stanno a indicare una cornice interpretativa dell’esperienza in cui questa assume per noi un significato.

Per questo mi piacerebbe allargare un po’ il concetto di ‘cambiamento’ e parlare di ‘con-versione’. Noi, come individui, come comunità, come imprenditrici e imprenditori, manager, professionist* e, in generale, lavoratrici e lavoratori, abbiamo bisogno, oggi, non genericamente di cambiare un po’, ma di mutare decisamente il verso, la direzione, del nostro pensare e del nostro agire, e questa con-versione ha necessità di essere interiore, profonda, spirituale, non solo mentale.

Pensare, come sappiamo, è un esercizio filosofico, ovvero un esercizio di vera e autentica ricerca senza pre-concetti e aperta a ciò che ancora non sappiamo (il famoso unknown) e, per questo non è mai solo mentale. Per illustrare meglio ciò che voglio dire mi tornano perfette le parole di Pierre Hadot che, nel suo libro “Esercizi spirituali e filosofica antica”, scrive: “L’esercizio filosofico non si situa solo nell’ordine della conoscenza, ma nell’ordine del sé e dell’essere: è un progresso che ci fa essere più pienamente, che ci rende migliori. E’ una conversione che sconvolge la vita intera, che cambia l’essere di colui che la compie. […] Non si tratta di un semplice sapere, ma di una trasformazione della personalità”.

Ma dove siamo rispetto all’agire che abbiamo bisogno di mettere in campo in questo momento storico per trasformare il nostro modo di pensare, il nostro sguardo su noi stessi e sul mondo e la nostra visione del mondo desiderabile?  Ho l’impressione che forse, talvolta, ci siamo con la testa ma, in generale, non ci siamo con tutto il resto.

Queste prime due settimane di settembre, giorni di ripresa delle attività di business e non solo,  mi hanno messo in contatto con tante persone e mi hanno fatto rendere conto che, probabilmente, è proprio così.
Tutti mi dicono di essere molto più stanchi, di essere molto più demotivati, di fare molta più fatica a fare le cose di sempre, di essere molto più sollecitati e di correre e correre più del solito, più di prima della pandemia. Sembra come se, dopo l’esperienza del lock down, vivessimo “come se non ci fosse un domani”, ma non nel senso in cui l’anno inteso tanti filosofi e saggi nel corso del tempo – cioè come un invito a vivere sempre nella sua pienezza quello che ogni giorno ci offre - quanto piuttosto come una sorta di bulimia del fare. O come coloro che, sentendo di star affondando, si agitano, annaspano e gridano in maniera concitata senza rendersi conto che forse questo li fa andare ancora più a fondo.

Quando ho domandato alle persone perché, secondo loro, questo accadesse, la risposta è stata quasi corale: “Perché, se si richiude tutto un’altra volta, sarà la fine (del mio business, della mia impresa) e quindi meglio portare a casa prima possibile tutto ciò che è possibile”.

Questo è in grandissima contraddizione con quella che sembrava fosse una presa di consapevolezza diffusa, un apprendimento collettivo – quindi anche di coloro che non fanno abitualmente riflessioni di questo tipo – intervenuto durante il lock down ovvero che abbiamo necessità di rallentare, che  abbiamo bisogno di tempo per ripensare i modelli di vita, di lavoro, di produzione e di consumo, che è urgente trovare un Senso – un significato e una direzione - a ciò che facciamo. Che abbiamo desiderio e necessità di  comunità, di solidarietà, di equità, di vicinanza, di (re) imparare a dare e a chiedere cura e bellezza.

Durante l’estate ci siamo cullati nell’illusione che la ‘nuova normalità’ potesse essere qualcosa di superficiale e di temporaneo alla quale far fronte nell’attesa di tornare a dove ci eravamo lasciati prima del grande sconvolgimento.

Ora, lentamente, ci stiamo rendendo conto che indietro non si torna e che, in generale, non abbiamo modelli, non abbiamo strumenti, non abbiamo piani sicuri, non abbiamo certezze di successo. E, poi, cosa sarà adesso il successo?

E allora abbiamo una gran fretta perché siamo terribilmente spaventati da quello che può accadere e da quello che non sappiamo - e questo ci porta a disperdere tantissime energie -, dal sentir salire dentro di noi un senso di fallimento e di frustrazione per l’apparente inutilità di quanto fatto e raggiunto finora, o meglio fino ad allora, fino a prima della pandemia. A cosa è valso, se è così vulnerabile, se va in frantumi così in fretta?
Facciamo fatica a considerare, invece, ciò che siamo e ciò che avevamo raggiunto come una piattaforma solida a partire dalla quale costruire il futuro.

Siamo abituati (abbiamo l’habitus) alla pianificazione strategica, alla logica secondo la quale quando ho definito bene i miei obiettivi e le azioni per raggiungerli, se non li raggiungo è perché ho sbagliato qualcosa, non perché la realtà è un sistema incerto e mutevole di cui ciascuno di noi, individuo, comunità o impresa che sia, è solo un elemento interdipendente da tutti gli altri.

Ora, invece, ci servono altre metodologie di pianificazione, basate non sul prevedibile ma sul possibile e sul desiderabile.

Abbiamo una grande occasione, se solo riusciamo a vederla, di re-immaginare davvero il futuro e di farlo insieme.
C’è spazio, come abbiamo detto più volte, per una nuova economia – nuove regole di funzionamento della casa comune – e una nuova ecologia - una nuova visione e narrazione della casa comune, la Terra, che tutti abitiamo e che tutti nutre. E c’è spazio anche per una nuova politica, scienza del vivere insieme.

Abbiamo anche tanti strumenti per costruire nuove visioni e nuovi agire, tutti gli strumenti offerti dall’approccio sistemico, dal design thinking alla Theory U, tutti gli strumenti offerti dalla cultura del coaching, della consulenza di processo e dalle metodologie di facilitazione. Abbiamo metodi e pratiche per sviluppare maggiore consapevolezza, la meditazione e la mindfulness che sempre più si vanno diffondendo, l’allenamento alla creatività, le arti come pratiche di benessere e le tante altre ricchezze che ci sono offerte soprattutto nel nostro mondo occidentale e soprattutto in Europa.

Cosa ci manca allora? Ci manca, spesso, l’intenzione vera e radicata di ‘cambiare mindset inteso come ne abbiamo parlato sopra, di cambiare i modi e la direzione del nostro pensare e agire per ritrovarne il senso profondo, di dedicare tempo al confronto delle idee e alla costruzione di nuovi significati comuni, di aprirsi con fiducia e disponibilità a ciò che ancora non sappiamo, di coltivare l’immaginazione e la cura.

Insomma, ci manca qualcosa che potremmo chiamare filosofia e che è nella disponibilità di tutti se c’è desiderio e buona guida.

Di fronte a una situazione apparentemente chiusa, infatti, tramite la forza di una parola o di un pensiero, chi pratica la filosofia sa reagire. Conosce l’arte di liberarsi, di trovare un’uscita dal vicolo cieco in cui si trova. Il pensiero è fluido e in virtù dell’esercizio stesso del pensiero, questo prende la forma di un dialogo interiore ininterrotto che sa rimettere in gioco ciò che sembra concluso.


Photo by Kyndall Ramirez on Unsplash

 

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