Giustizia, equità e cultura per il miglioramento della nostra Società

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Una società inclusiva ed equa deve promuovere la cultura e l’educazione alla legalità,

mirando a combattere le disuguaglianze sociali e creare consapevolezzae fiducia nelle Istituzioni, onde evitare che le persone siano facilmente manipolabili e il concetto stesso di giustizia possa assumere interpretazioni preoccupanti ed essere messo in discussione.

Nel settembre 2015 l’ONU ha approvato la nuova Agenda Globale per lo Sviluppo Sostenibile e i relativi 17 Sustainable Development Goals (SDG) da raggiungere entro il 2030. A tal fine, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) – cui aderiscono oltre 200 Istituzioni, Fondazioni, Università, Reti e Associazioni tra cui Stati Generali dell’Innovazione - ha l’obiettivo di «far crescere nella società italiana, nei soggetti economici e nelle istituzioni la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile e per mobilitarla allo scopo di realizzare gli obiettivi di Sviluppo Sostenibile».
ASviS lanciò nel 2017 la prima edizione del Festival dello Sviluppo Sostenibile, una serie di eventi articolarti su 17 giorni (tanti quanti sono i SDGs) dal 21 maggio al 6 giugno. Furono organizzati 220 eventi, saliti a 702 nel 2018 e 1.061 quest’anno (+51% rispetto al 2018).

Uno di questi eventi si è tenuto lo scorso 4 giugno presso la Bottega Filosofica di Myriam Ines Giangiacomo, nell’ambito degli obiettivi del Goal 16 “Pace, Giustizia e Istituzioni Solide”. Esso intende “promuovere società pacifiche e più inclusive per uno sviluppo sostenibile; offrire l'accesso alla giustizia per tutti e creare organismi efficienti, responsabili e inclusivi a tutti i livelli”. Per rafforzare la cultura della legalità, ASviS propone di educare ad essa e alla lotta alla mafia fin dall’età scolare, stilare un codice comune di condotta a livello politico e amministrativo per prevenire l’insorgere di fenomeni corruttivi e di favoreggiamento alle mafie.

L’evento del 4 giugno scorso intendeva condurre “Riflessioni da vicino e intorno al concetto di società equa ed inclusiva”. L’attuale momento storico, in cui si discute spesso di episodi di intolleranza e discriminazione a vario livello ci fa riflettere su come legittimare e rendere patrimonio comune i valori di pace, giustizia e inclusione sociale per dare al concetto di sostenibilità un ruolo sempre più centrale ed esteso. Nell'ambito di un incontro dialogico e conviviale, quindi, a partire dalle esperienze personali quotidiane, si è cercato di riconoscere e analizzare i micro comportamenti ostili e non inclusivi che ognuno - spesso inconsapevolmente – si trova a porre in essere, allo stesso tempo evidenziando le buone pratiche generatrici di equità e sostenibilità sociale. Occorre individuare nuovi comportamenti e abitudini possibili, volti ad affermare e testimoniare, anche nell'ordinaria quotidianità di ciascuno, valori universali quali la tolleranza, il rispetto, l'inclusione e la giustizia sociale.

Dunque, una società inclusiva, equa e pacifica che attui valori e principî di giustizia e sostenibilità sociale. Ma cosa vuol dire “giustizia”?

Secondo Wikipedia essa è “l'ordine virtuoso dei rapporti umani in funzione del riconoscimento e del trattamento istituzionale dei comportamenti di una persona o di più persone coniugate in una determinata azione secondo la legge o contro la legge. Per l'esercizio della giustizia deve esistere un codice che classifica i comportamenti non ammessi in una certa comunità, e una struttura giudicante che traduca il dettame della legge in una conseguente azione giudiziaria”. In realtà, ancorché teoricamente identificata da un comune sentire che sostanzia una legge naturale, è una definizione che ha molti connotati soggettivi e si presta ad interpretazioni diverse sulla base di estrazioni sociali, bagagli culturali, inclinazioni politiche, ... delle diverse comunità.

Il concetto di giustizia non può essere disgiunto da quello di equità e uguaglianza di tutte le persone di fronte alla legge, parole peraltro di significato non necessariamente univoco nelle varie classi sociali. Comportamenti “legali” non sono necessariamente percepiti da tutti come equi e giusti – si pensi all’applicazione della legge nei regimi totalitari, generalmente piegata agli interessi del dittatore di turno. Nel Medioevo, specialmente prima della Magna Charta Libertatum (1215), l’imposizione dall’alto di tasse e gabelle a favore delle classi gentilizie al potere impoverivano “legalmente” le classi più umili.
Con le conquiste sociali negli ultimi due secoli e l’avvento delle Costituzioni democratiche, (almeno) coloro ammessi a esprimersi con il proprio voto - peraltro generalmente ristretto, almeno inizialmente, alle classi più istruite e abbienti (e di sesso maschile) - potevano delegare a propri rappresentanti le decisioni legislative e amministrative, oltre che i livelli di tassazione da porre in essere nei confronti delle comunità governate – “no taxation without representation”.

Si intravede pertanto il legame tra giustizia e cultura, intesa sia come incremento del bagaglio di conoscenze che formazione all’autodeterminazione, all’etica pubblica e privata e alla anteposizione degli interessi generali di una comunità in divenire rispetto al “particulare” delle proprie esigenze di puri sostentamento e sopravvivenza a breve.

Occorre quindi incrementare il livello di cultura e consapevolezza sociale delle classi svantaggiate, che paradossalmente sono storicamente le prime ad aderire ai proclami dei demagoghi di turno, salvo poi trovarsi indifese a pagare il prezzo di errori, orrori e misfatti di costoro, il cui scopo principale era (ed è) alimentare la paura, sbandierando sempre nuovi nemici per poter mantenere ben saldo il consenso popolare, parlando alla pancia dei tanti (specialmente se di scarsa cultura e a disagio sociale) piuttosto che alle menti dei pochi più ‘illuminati’.
Del resto, non va sottovalutata la percezione della paura o insicurezza, e fanno francamente sorridere le argomentazioni di coloro che continuano a minimizzarla, adducendo dati ufficiali che quantificano diminuzioni di reati, migranti, ecc. a fronte della percezione di aumento della criminalità (dei migranti), invasioni, islamizzazioni e quant’altro.

Se uno ha paura, ha paura, è velleitario cercare di convincerlo che - dati alla mano - non deve averne. Non a caso nel vertice di Yalta del febbraio 1945 tra Regno Unito, URSS e USA per preparare il nuovo ordine mondiale dopo la tragedia bellica, Franklin Delano Roosevelt inserì tra i vari requisiti per una nuova società, pacifica, giusta ed inclusiva, una delle ‘sue’ quattro libertà –la  libertà dalla paura.

E’ pertanto comprensibile la paura, soprattutto nelle fasce più svantaggiate e colpite dalle crisi economiche, negli abitanti delle periferie più o meno abbandonate dalle Istituzioni, soggetti a una lotta quotidiana (tra poveri) per la sopravvivenza, in uno scenario di aumento di povertà e diminuzione del lavoro (anche a causa delle nuove tecnologie), nelle quali condizioni è oggettivamente arduo non dare retta ai propri istinti primordiali e usare la forza della ragione per discernere tra realtà e strumentalizzazione -- V. “nun me sta bene che no” del coraggioso quindicenne Simone di Torre Maura di fronte alla rivolta orchestrata contro i nomadi.

Un conto quindi è alimentare la paura per trarne dividendi politici – e chi lo fa si prende una enorme responsabilità di mettere gli uni conto gli altri -, altro è la percezione di paura della gente in difficoltà (specialmente se di limitata cultura nel senso sopra esposto), che può non avere la necessaria lucidità ed educazione civica per capire cosa sia bene e cosa no per gli interessi in divenire della collettività, tanto più in presenza di crisi di valori e Istituzioni in cui le persone di potere mostrano esse stesse di privilegiare i propri interessi rispetto a quelli della collettività.

Il fenomeno NIMBY (not in my back yard) è del resto molto diffuso in tutti gli strati sociali. Siamo sempre molto attenti ai nostri diritti e piuttosto indulgenti con i nostri doveri, salvo comportarci al contrario con quelli degli altri, di cui stigmatizziamo sovente la mancata presa in carico di responsabilità a fronte della richiesta di diritti e protezioni. Ancora più sbagliato nel momento in cui le élite non si confrontano con i reali problemi e timori delle classi più penalizzate, promuovono iniziative (anche lodevoli) di crescita sociale ma non comprensibili dai destinatari a disagio sociale, che richiedono la soluzione ai problemi di sussistenza dell’oggi piuttosto che a quelli del domani o dopodomani – basti ricordare come i più accesi sostenitori della Brexit furono proprio le classi rurali maggiormente aiutate dai fondi UE. Hanno quindi buon gioco i seminatori di paura e i dispensatori di spicciative pratiche per combattere l’insicurezza sociale, con messaggi facili da capire e diretti alla pancia piuttosto che alla ragione.

In tale scenario, è difficile individuare un significato univoco per “giustizia”. Occorre diminuire la distanza tra popolazione e Istituzioni, aumentare l’educazione civica su diritti e doveri, realizzando ecosistemi consapevoli in un circolo virtuoso che educhi alla legalità e al rispetto del prossimo. Come diceva Giovanni Falcone, occorre cominciare dai piccoli comportamenti personali, e la cultura gioca un ruolo determinante, anche nello ‘scendere dal piedistallo’ da parte di chi, con troppa facilità, dà la colpa al popolo ‘ignorante’ e credulone che vota parti politiche ‘sbagliate’.

Nonostante le manipolazioni, echochambers, fakenews dominanti sui social – una buona metà delle notizie in tempi normali, che toccano oltre il 90% nelle campagne elettorali! -, non si può pensare che interi popoli siano preda di faciloneria e pressappochismo, divertendosi a silurare i bravi e buoni a vantaggio degli incompetenti e cinici, buttando a mare principi di equità, giustizia ed inclusione sociale.

Pensiamo al fenomeno dei migranti. E’ fin troppo facile propugnare principi di solidarietà e accoglienza, ma se poi quest’ultima non viene ben ‘gestita’, se molti benpensanti (e Governi di altri Paesi) non ne vogliono sapere di aprire i propri territori, case e beni per aiutare i bisognosi, dando per scontato che se ne occupino altri (NIMBY), cosa possono fare i migranti se non offrirsi al caporalato e/o delinquere? Saranno anche “pregiudizi”, ma quanti ospiterebbero persone sconosciute con reale senso disinteressato di solidarietà e senza timori per il proprio benessere e sicurezza? E’ facile parlare di periferie degradate quando non le si frequenta, di mezzi pubblici quando non li si usa, di doveri altrui a salvaguardia dei propri diritti o privilegi,...

E’ comprensibile, quindi, un diverso concetto di “giustizia”. Il migrante reputa ingiusto che gli venga negato asilo e assistenza solo perché ‘diverso’ e con la ventura di essere nato in un Paese meno fortunato, e allo stesso modo coloro forzati a ricevere tali migranti (specialmente se essi stessi a rischio povertà ed esclusione sociale) si possono sentire minacciati da una (percepita) invasione che possa attentare alla propria sicurezza, richiedendo protezione e “giustizia” che li difenda contro un tale pericolo.

Una società inclusiva, equa e pacifica che attui valori e principî di giustizia e sostenibilità sociale deve promuovere la cultura e l’educazione alla legalità, mirando nel contempo a combattere le disuguaglianze sociali (Forum Disuguaglianze e Diversità). Si sta bene e sicuri se TUTTI stanno bene, se i principi di equità e giustizia vengono condivisi da un ecosistema di persone istruite (e quindi consapevoli e più impermeabili a manipolazioni, inganni e prese in giro) che abbiano fiducia nelle Istituzioni, e queste si occupino di legiferare e applicare norme eque, trasparenti, non discriminatorie e rapide per fare rispettare le regole del (con)vivere civile, senza alimentare paure, diffidenze o peggio razzismi, nuovi autoritarismi e ‘guerre tra poveri’.

Il capitale sociale per trasformare il sistema socio-economico verso lo sviluppo sostenibile, dipende infatti pesantemente (anche) dalla qualità delle Istituzioni, in grado di generare quei “servizi socio-sistemici” che alimentano e sostengono il benessere sociale. In questo ambito, è fondamentale la cultura della legalità per assicurare tali servizi. Occorre sensibilizzare ed educare alla legalità già in età scolare, promuovendo altresì consapevolezza, cultura ed educazione ai nuovi mezzi di comunicazione social – teoricamente dis-intermediati, ma nella pratica influenzati e circoscritti in echochambers auto-confermative, dove gli algoritmi delle piattaforme ci profilano e propalano informazioni in linea con le nostre convinzioni, spingendoci ad interagire solo con persone che la pensano come noi, confermando le nostre idee e distorcendo la percezione della realtà.

Altrimenti, considerato l’alto numero di “analfabeti funzionali” incapaci di comprendere il senso di un testo (oltre il 50% nel nostro Paese), le persone diventano facilmente manipolabili dalla propaganda – come lucidamente previsto oltre vent’anni fa dal lungimirante “Tecnopolitica” del compianto Stefano Rodotà.

«Intellettuali di tutto il mondo unitevi, c'è molto da fare» afferma il filosofo Massimo Cacciari.«Se uniti, si costituirà una forza inarrestabile, la forza della cultura, la sola che possa costituire un argine autentico contro la deriva pericolosa del populismo e della miseria, principalmente di quella della mente e dello spirito».

"Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto più nessuno a protestare"

(Martin Niemöller)

 

* Fulvio Ananasso è presidente di Stati Generali dell'Innovazione

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