Quando le imprese si scoprono fragili

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Il primo passo è sempre aumentare la consapevolezza di sé e del contesto.

In un momento di profonda e inedita difficoltà per le persone e le organizzazioni come quello che stiamo attraversando, riteniamo interessante proporre una riflessione in chiave pratica sulla fragilità o meno delle imprese. Per questo partiamo dall’osservazione della relazione comportamenti/risultati nelle crisi del passato recente (in particolare quelle del 2008 e del 2013).
Se volessimo, allora, proporre una classificazione delle imprese basata sulle loro modalità di reazione a quei periodi di crisi (ma, sostanzialmente, a tutte le crisi) potremmo identificare:

- le imprese fragili, quelle che pur registrando perdite cospicue, nei momenti di crisi si chiudono in difesa e aspettano che "passi 'a nuttata" senza valutare adeguatamente il rischio di non riuscire, poi, a rialzarsi;

- le imprese robuste o resistenti, quelle che riescono a opporsi ‘con la forza’ alle crisi e, magari mettendo in campo sforzi straordinari, mantengono stabili, nel breve termine, le proprie performance;

- le imprese resilienti, quelle che, nel confrontarsi con le crisi, sanno migliorarsi, magari in virtù della loro flessibilità e della capcità di adattamento;

- le imprese antifragili, in quelle che ‘approfittando’ delle crisi evolvono e spesso lo fanno attraverso un’innovazione radicale e continua, rimettendosi in discussione e spingendosi oltre i propri limiti fino a superarli o trasformarli.

È stato più volte osservato, in diversi campi e studi, come l’evoluzione tragga vantaggio dalla casualità e dalla volatilità, purché queste si presentino in misura tollerabile e non eccessiva. Darwin, nel suo saggio “L’origine della specie” (1859), afferma che la ‘selezione naturale’ sembra premiare i soggetti che si adattano al meglio e nel minor tempo possibile all’ambiente esterno e ai suoi cambiamenti. La Natura non ha necessità di conoscere anticipatamente con certezza cosa succederà in futuro, né di pianificarlo. Ogni evento che si manifesta, porta a un cambiamento nell’ecosistema naturale ed è proprio tale cambiamento il rimedio di fronte al verificarsi di fatti inattesi e sconvolgenti. Attraverso cambiamenti e metamorfosi, che non si arrestano mai, la Natura è in grado di cambiare strategia continuamente e di migliorarsi.

Ciò che avviene in Natura è osservabile in molti altri ambiti della vita, compreso quello economico. E le più recenti teorie economiche e dell’organizzazione ci invitano a guardare alle aziende come a degli organismi viventi. In quanto tali sono destinate a soccombere se non si dimostrano in grado di far fronte ai mutamenti dell’ambiente che le circonda, evolvendo.
Gli sconvolgimenti che si manifestano e perturbano un sistema, percepito fino a quel momento in equilibrio, non sono quindi da considerarsi solo come negativi, ma possono essere guardati come un’opportunità per evolvere e, se sfruttati adeguatamente, possono portare a un miglioramento.

Dall’osservazione del comportamento delle imprese italiane nelle crisi del 2008 e del 2013, emerge una situazione fortemente polarizzata.

Da una parte troviamo aziende che hanno dovuto soccombere alla crisi, magari dopo aver tribolato cercando di fronteggiarla in condizioni problematiche e pericolose dal punto di vista finanziario. Aziende già poco sane – perché deboli in uno o più dei pilastri su cui si fonda l’impresa (prodotto, profitto, persone, governance) e incapaci di innovare e di cambiare - facilmente soffrono di un limitato o ridotto accesso al credito, del quale però hanno bisogno per stare in piedi. Senza apertura e capacità di cambiamento si innesca facilmente un circolo vizioso. La necessità di dismettere alcune attività per reperire la liquidità sufficiente per far fronte agli impegni assunti porta a ridurre la capacità produttiva e di vendita e, di conseguenza, la forza lavoro. Questo può portare a una ulteriore contrazione delle attività e via di seguito fino all’estinzione.

Dall’altra parte, invece, troviamo aziende che crescevano con tassi di variazione annuale persino maggiori di quelli raggiunti prima dell’inizio della crisi, fenomeno plausibile se si considera che, essendo perite molte aziende, le sopravvissute hanno goduto anche di fatturato liberato dai concorrenti usciti dal mercato. Le imprese che hanno potuto continuare con successo la propria attività erano imprese sane – sempre considerando tutti gli aspetti, finanziari, di prodotto/mercato, personale e di governance – e non hanno avuto bisogno, spesso, di ottenere fondi dall’esterno per investire in progetti innovativi e di crescita. La flessibilità, l’apertura al cambiamento, la ‘buona governance’ e la fiducia all’interno del sistema innescano un circolo virtuoso. L’azienda si espande, migliorano le performance, si assume nuovo personale, si reinveste nell’innovazione.
Dall’analisi della letteratura emerge una stretta correlazione tra resilienza, antifragilità e innovazione. Infatti, secondo gli economisti, un fattore chiave, che permette alle aziende di evolvere e migliorare, in modo incrementale o radicale, nonostante uno shock, risulta essere la loro capacità di innovare.

Nassim Taleb, autore di “Antifragile” e inventore del neologismo che dà il titolo al volume, considera un fattore cruciale di successo la capacità di correre rischi - sapendo distinguere quelli che, mettendoci sotto stress, ci spingono a evolvere da quelli che potrebbero portarci alla rovina.

Ma come facciamo - come individui e aziende - a identificare i rischi grandi e potenzialmente distruttivi?

"È facile", dice Taleb. "Più grande è il rischio, più facile è capire cos'è [...] Quando si tratta di rischiare" scrive, "le persone tendono a sentirsi sopraffatte e cercano di tracciare e immaginare ogni possibile scenario di ciò che potrebbe andare storto perché pensano 'dobbiamo prendere in considerazione e preoccuparci di tutto'. Nel business, guarda cosa può portarti al fallimento e lavora all'indietro".

E ancora, "L'idea di Antifragile è cercare di spiegare alla gente perché i piccoli stressor sono buoni e i grandi stressor sono cattivi: se salto un metro, le mie ossa diventano più forti; se salto venti metri, si ha non linearità (ovvero una sproporzione tra la causa e l’effetto)".

Taleb ci mette anche in guardia da un apparente paradosso: l’organizzazione che non ha problemi, è una ‘cattiva’ organizzazione. Scrive, infatti, "La peggiore organizzazione possibile è un'organizzazione che non ha assolutamente nessun problema. Avrà rendimenti costanti e un giorno crollerà".
Una navigazione completamente liscia, in altre parole, non è una buona cosa, perché non ci permette di imparare a rispondere e adattarci ai nostri ambienti. Non possiamo diventare antifragili senza lottare con i problemi, rispondere e adattarci.

Secondo Taleb, abbiamo due strade a nostra disposizione: quella della stabilità e quella della buona volatilità.

La maggior parte delle organizzazioni di successo non ama la volatilità e la casualità, saperne trarre vantaggio richiede un enorme cambio di paradigma. Le nostre organizzazioni diventano fragili quando abbiamo molto successo e sentiamo di avere troppo da perdere se cambiamo.

Ecco alcuni segni dai quali possiamo riconoscere la nostra organizzazione come 'fragile' secondo Tony Bendell, autore di "Building the antifragile organisation":

  • Non sapete di essere fragili - c'è un generale basso livello di consapevolezza nell'organizzazione.

  • Manca coerenza tra visione, leadership, comunicazione, strategia e obiettivi e di conseguenza fate fatica a rispondere alle sollecitazioni.

  • Sapete di essere fragili, ma non fate nulla al riguardo.

  • Fate gestione del rischio in modo sbagliato, il rischio è percepito solo in termini di compliance.

  • Si dà troppa importanza al denaro e al breve termine.

  • Le persone non hanno potere, viene richiesto loro solo di seguire regole e procedure. C'è poca flessibilità e agilità.

  • Il cambiamento è mal gestito. Guidare il cambiamento continuo è la chiave per l'antifragilità quindi non farlo o farlo male, rende fragile l’organizzazione.

  • Ci sono processi deboli. Protagonismo individuale, autoreferenzialità e processi bloccati creano fragilità.

  • Non c’è trasparenza nei processi decisionali. Un processo decisionale poco chiaro può aumentare l'inazione.

  • Sono state attuate delocalizzazioni/esternalizzazioni in maniera superficiale e i clienti sono ignorati. Delocalizzare/esternalizzare senza preoccuparsi di prevenire problemi di qualità e interruzioni del servizio - dando quindi un'attenzione insufficiente al cliente - crea fragilità.

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